Recensione di Club Godo, Una cartografia del piacere

Club GodoUna cartografia del piacere, Jüne Plã, Ed. L’ippocampo, pagg. 251

Che cos’è il sesso tenta di spiegarcelo in modo originale e rivoluzionario Jüne Plã nel suo Club Godo – Una cartografia del piacere.

Iniziamo col dire che sul sesso c’è una fantastica cappa di piombo che convalida il conformismo delle pratiche e dei piaceri, mentre tutto ciò che è diverso o poco conosciuto semplicemente non esiste. Il sesso è il genere di argomento in cui è possibile essere oppressivi e normativi anche mentre ci si mostra emancipati. Ecco, quindi, arrivare in nostro soccorso questa moderna e anticonformista francese di Marsiglia, con una moltitudine di schizzi, spiegazioni, schede e precisazioni, che hanno lo scopo di condurci verso l’esplorazione della nostra sessualità, insegnandoci o solo ricordandoci che esistono migliaia di modi per darsi e dare piacere, migliaia di ritmi e di fasi, e che nessuno di questi modi è migliore degli altri, e che non esiste nessun punteggio e nessuna competizione. Ecco, quindi, abbattuto in un batter di ciglio lo stereotipo sessuale più arcaico e radicato, che vede la penetrazione come la strada maestra per il piacere.

Jüne Plã presenta una sessualità per tutt*, e che ha bisogno delle voci di tutt*, di chi esplora e propone idee e soluzioni, una sessualità quindi egualitaria e, allo stesso tempo, sbalorditiva. L’approccio dell’autrice è da lei stessa definito femminista, o più precisamente umanista, basato sulla fiducia verso l’intelligenza collettiva dell’essere umano, capace nel tempo e con l’unione di ribaltare l’attuale status quo; un femminismo, quindi, inclusivo nel senso più ampio del termine, perché ogni essere umano merita rispetto e attenzione. Apprezziamo tantissimo, quindi, nelle varie illustrazioni la scelta di non associare i genitali e le mani che li toccano a un determinato genere, con la volontà di includere tutt*: gay, lesbiche, bisessuali, pansessuali, persone transgender.

Jüne Plã ci parla di tante cose, di anatomia, di educazione e prevenzione sessuale, ci ricorda che si può fare sesso con le mani, con la bocca, tramite le carezze, con gli occhi, ci parla di comunicazione, di creatività, di reciprocità, di ascolto e osservazione. Ci invita a rallentare, ad uscire dalle nostre comfort zone e a esplorare, osannando la masturbazione a più riprese per approfondire la conoscenza di se stessi, della propria fisicità e sensibilità.

Grandiosa e potente nella scelta stilistica di un linguaggio sempre diretto, chiaro, senza censure, volutamente provocatorio, ma anche scherzoso e ironico. Non si può non ridere o sorridere leggendo frasi del tipo ‘’Non c’è niente di meglio della masturbazione per fare sogni d’oro’’, oppure “Nessuno ti scoperà mai meglio di chi gode nel farti godere’’, o ancora ‘’Anche gli uomini etero amano la sodomia, solo che non lo sanno ancora’’.

Per la sua struttura, per la sua audacia e autenticità Club Godo rappresenta una pietra miliare nel panorama della sessualità spiegata al grande pubblico, compreso quello queer, da leggere da soli, o da gustare in compagnia, per nuove scoperte e nuove consapevolezze. Un occhio di riguardo viene riservato al genere femminile, con l’esortazione di ‘’smettere di fare finta’’, andando a smuovere forza e dignità per la conquista di un piacere che spetta di diritto tanto agli uomini quanto alle donne (con grande smacco al patriarcato).

Tenendo a cuore l’inclusività e la visibilità, Jüne Plã ha dedicato una scheda all’intersessualità, spiegando cos’è e perché è stato impossibile offrire delle rappresentazioni grafiche dei genitali corrispondenti.

Super curiosità (che vi farà amare pazzamente Jüne Plã !!!): sapete da dove nasce Club Godo?! Ad un cento punto Jüne ha iniziato a trovare il sesso noioso, decidendo così di realizzare dei disegni per spiegare ai suoi partner che oltre alla penetrazione c’è molto altro; in uno slancio di estrema generosità ha deciso di condividere su Instagram le sue scoperte illustrate che, con sua grande sorpresa, hanno avuto un incredibile successo, superando in un anno e mezzo i 600.000 followers sull’account Jouissance Club… il che le ha fatto capire che forse non era l’unica ad annoiarsi.

(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Allegro, non troppo

Allegro, non troppo
di Giorgio Ghibaudo

I teatri, finalmente, uno dopo l’altro, stanno riaprendo. Il Teatro dei Filodrammatici di Milano, con la nona edizione del festival Lecite/visioni – Storie di amori LGBT è stato uno dei primi
Tra i cinque spettacoli in cartellone nella rassegna, la stand up comedy Allegro, non troppo.

In scena l’attore Lorenzo Balducci, alla regia Mariano Lamberti, autore del testo insieme a Riccardo Pechini.

Trama… Una stand up comedy può avere una trama? Forse sì, forse no.

Il tema? Anzi, i temi? La comunità LGBTQIA+ di oggi, la realtà italiana e internazionale, il bullismo omolesbobitransfobico, l’omolesbobitransfobia interiorizzata, Grinder (e tutto il body shaming, il fat shaming, l’ageismo e il surrealismo postmoderno che questa app per incontri si porta dietro), il coming out e il chem sex. E poi l’HIV, gli incontri al buio (buio metaforico o meno che sia), la Russia intollerante, violenta e putiniana (sì, quella della caccia all’omo), Toto Cutugno (non un omonimo, proprio lui), Mario Mieli, l’attivismo, i moti allo Stonewall Inn, le “velate”, gli stereotipi che ci ingabbiano, il coraggio di essere se stessi.

In poco meno di due ore di spettacolo vengono citati uno per uno gli omofobi italiani di tutti i tempi: i soliti noti (Zeffirelli, Meloni, Platinette, Zero & C) e gli insospettabili (Domenico Modugno e Eduardo De Filippo… Loro?! Ma no?! Ma sì!). Si parla di Thomas Mann, il celebre autore tedesco de La montagna incantata, omosessuale (non dichiarato, ma praticante) e al contempo omofobo, inflessibile vessillifero del matrimonio eterosessuale, che si permetteva (l’ipocrita!) atteggiamenti sprezzanti nei confronti dell’orientamento sessuale di Erika e Klaus, due dei suoi sei figli.

Si gioca con l’ironia e l’autoironia, qui. Si accenna a cosa significhi il passare del tempo quando sei gay (uno dei protagonisti della serie TV Looking diceva “Quando compi quarant’anni, Grinder ti spedisce a casa il certificato di morte”), a cosa significhi essere una persona LGBTQIA+ in una società come la nostra, ottusa, che ancora stenta a diventare moderna, civile, adulta.

In Allegro, non troppo l’accoppiata Lamberti-Balducci torna a far parlare di sé dopo l’esperienza cinematografica di Good As You – Tutti i colori dell’amore.

Allegro, non troppo è forse una stand up comedy buonista?

Col cavolo!

Allegro, non troppo è politicamente corretta?

Non direi proprio.

Il testo con le sue battute e le sue frecciate non risparmia niente e nessuno (a volte, in modo condivisibile, altre, a mio parere, un po’ meno), ma preferisco non anticiparvi nulla riguardo a ciò, suggerendovi invece di assistere di persona a una delle (speriamo numerose) prossime repliche.

Uno spettacolo con due anime, questo, diviso idealmente in altrettante parti. La prima, è ridanciana, corrosiva, cattiva, sarcastica e viperesca. Brillante e critica al contempo, si dimostra chiara, acuta e profonda senza risultare mai saccente, didattica o didascalica. La seconda è invece più intimista, fatta di chiaroscuri, in cui Lorenzo Balducci esce dal personaggio Balducci-commediante (al quale ci ha abituati nei suoi ormai celebri video molto pop e assai camp) per mettere in scena Balducci stesso: una confessione spontanea, lunga, inattesa e disarmante. Il suo coming out soffertissimo con i genitori, le sessioni di chem sex (vuote e in apparenza soddisfacenti, tanto quanto obnubilanti e alienanti) e una psicoterapia salvifica che pare essere arrivata, per l’attore Balducci e per l’uomo Balducci, proprio nel momento giusto.

Intanto, a sipario chiuso e riflettori spenti, Mariano Lamberti e Lorenzo Balducci hanno risposto ad alcune domande.

Mariano, il titolo del tuo film Good As You, “nascondeva” al suo interno la parola GAY. Cosa si cela, invece, dietro a quello di Allegro, non troppo? E soprattutto, perché?

Il titolo gioca un po’ sul significato di gay nella lingua anglosassone, che significa allegro. Ma visto tutto il background doloroso, nevrotico e di segregazione, che ha subito il popolo lgbt nel corso della storia, era un modo per sdrammatizzare, ma anche per sottolineare la dolorosa presa di identità della comunità lgbt

Immagina per un momento di dovere per forza fare un’aggiunta al testo del tuo spettacolo. Di cosa vorresti ancora parlare? Quali altri temi farebbero parte di Allegro, non troppo? Quali altre personalità del mondo della politica e dello spettacolo dovrebbero in quel caso iniziare a temere i tuoi strali?

Forse una cosa di cui avrei potuto parlare di più è un certo conformismo della comunità gay, quando vuole sentirsi rassicurata nella propria autorappresentazione. Il buonismo, di cui a volte si compiacciono alcune rappresentazioni, cinematografiche soprattutto, senza considerare che invece parlare delle proprie nevrosi non solo è liberatorio, ma anche salutare nella costruzione di un’identità forte.

Diciamo che non ho risparmiato nessuno dei big famosi della comunità… Le poche persone che abbiamo risparmiato si trovano in un momento magari delicato della loro vita, per cui non ci sembrava il caso di infierire, in particolare con un cantante molto famoso di cui abbiamo discusso parecchio con Riccardo Pechini e con Lorenzo, di cui ovviamente non farò il nome

Invece a te, Lorenzo, chiedo, oltre alla paura folle che avevi di andare per la prima volta in scena come stand up comedian a reggere, da solo sul palco, uno spettacolo intero, a cos’altro pensavi un attimo prima che i riflettori si accendessero? E quali sono i messaggi che Allegro, non troppo vuole portare al vostro pubblico?

Prima di salire sul palco pensavo: sono solo. Non ho mai aspettato l’entrata in scena senza la complicità e il sostegno di altri colleghi. Stavolta sentivo un profondo silenzio. Una grande solitudine. Necessaria. Mariano mi aveva appena incoraggiato dicendomi : “credo in te.” E questo mi ha dato grande forza. Ma gli ultimi cinque minuti li ho passati facendo avanti e indietro lungo il corridoio dei camerini. Respiravo profondamente. E ho capito che un’esperienza così grande mi avrebbe aiutato a crescere anche come persona.

E poi ho pensato ai miei nonni, ho portato una loro foto con me.

Credo che uno dei messaggi più importanti dello spettacolo sia il diritto sacrosanto di ogni essere umano ad essere se stesso, ad amare ed amarsi, senza vergogna. A rispettare gli altri e rispettarci.

Ad accettare la vita così com’è, amarla così com’è.

Normalmente non credo nell’idea del “messaggio”, preferisco l’idea di raccontare una realtà, dei fatti, chiaramente con un punto di vista, lasciando una suggestione, provocando una reazione.

Sulla tua maglietta di scena c’è scritto Elektra Abundance, ovvero il nome della personaggia cinica e sassy della serie Tv Pose, interpretata dall’attrice nera transgender Dominique Jackson, che tu tra l’altro “citi” con un lip sync nella parte finale dello spettacolo. Come mai? Una scelta tua? Di Mariano? O di entrambi?

La scelta della maglietta è stata una mia idea, ho fatto una sorpresa a Mariano il giorno della prima. Gli ho detto: ho stampato su una maglietta il nome di una persona che mi porterà fortuna, che rappresenta per me il coraggio, la forza, la fiducia in se stessi, l’irriverenza, l’audacia di cui avevo bisogno su quel palco. Avevo bisogno di un simbolo.

Recensione di Pride

Pride è un film del 2014 diretto da Matthew Warchus.

La pellicola – basata su una storia vera –  racconta le storie di due comunità, quella LGBTQIA+ e quella dei minatori ai tempi dell’Inghilterra della Thatcher (1984) che, apparentemente, non hanno nulla in comune e potrebbero addirittura essere poste in contrasto.

Tuttavia Mark Ashton (interpretato da Ben Schnetzer), giovane attivista gay membro della Young Communist League, non si ferma a quest’apparenza, al contrario riconosce come entrambi i gruppi subiscano le vessazioni causate dalle scelte politiche della premier Margaret Thatcher. 

Il ragazzo, così, decide di voler costruire un legame di solidarietà tra i due gruppi oppressi, coinvolgendo – con difficoltà – i suoi sei compagni nella creazione del gruppo “Lesbiche e Gay a supporto dei Minatori” (LGSM), che ha l’obiettivo di raccogliere donazioni della comunità LGBTQIA+ londinese da devolvere ai minatori, così da sostenerli in questo periodo difficile.

Seppur non manchino la resistenza e lo scetticismo di molti lavoratori, il gruppo riesce a costruire un rapporto, inizialmente di collaborazione, ed in seguito di vera e propria amicizia, con un gruppo di minatori di Onllwyn (sud del Galles), scardinando i pregiudizi di questa piccola comunità chiusa e tradizionalista.

Purtroppo, non tutti i minatori riescono ad aprirsi e ad accettare questo rapporto, causando così problemi al gruppo LGSM che subisce attacchi nella sede londinese.

Il sentimento cardine di questo film è, fra gli altri, proprio quello della solidarietà che viene rappresentato fino alla fine del film, quando vediamo i minatori gallesi partecipare al Pride di Londra del 1985 per sostenere i loro amici.

In seguito, le federazioni sindacali inglesi, spinte dai sindacati dei minatori hanno infatti incluso i diritti delle persone gay e lesbiche nei loro statuti.

Oltre alla solidarietà, il film racconta storie di coming out, rapporti con le famiglie, omofobia e l’esplosione dell’AIDS.

Curiosità

La pellicola è stato presentata al Festival di Cannes 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, ed è stata premiata con la Queer Palm (la Queer Palm è un premio cinematografico indipendente assegnato ai film a tematica LGBT nel corso del Festival di Cannes, fondato nel 2010 dal giornalista Franck Finance-Madureira, che cura ogni anno l’organizzazione).

In Italia, il film è stato proiettato in anteprima nazionale nel corso del Gender Bender festival di Bologna il 29 ottobre 2014.

(recensione e grafica di Martina Bonanno)

Recensione di L’amore è imperfetto

L’amore è imperfetto, Francesca Muci, Ed. PIEMME, pagg. 180

Elena, la protagonista de L’amore è imperfetto, ci conduce per mano in un delicato viaggio introspettivo alla scoperta dell’amore, nelle sue varie fasi e nelle sue molteplici forme e declinazioni.

Trentacinquenne romana, si presenta sin dalle prime pagine come una intricata matassa di paure e titubanze, a tratti sapientemente controbilanciate da guizzi di genio, trovate iperboliche, uscite sagaci e scelte ardite.

Elena è dei Gemelli, ma racchiude ed impersona ognuno di noi, con le sue zone di luci ed ombre, che si alternano a seconda delle situazioni più disparate; diventa, quindi, un IO universale, che si esprime attraverso la storia della protagonista. Elena è sola, con una cicatrice sulla pancia, che ancora ‘’brucia’’. Elena è madre, o meglio ha messo al mondo Claudia e poi non lo è mai stata, per decisione, per un accordo, per reticenza, per insicurezza. Non si capisce bene, e probabilmente neppure lei lo capisce, fino al giorno in cui il destino non decide di farle incontrare Ettore ed Adriana, i due volti dell’amore inaspettato, le chiavi di svolta di un’esistenza, la sua, ancora troppo ferma nelle sabbie mobili del passato. Ettore rappresenta l’amore maturo, esperto, protettivo, ma al tempo stesso altamente passionale e trasgressivo; è un sessantenne in carriera, con la sottile capacità di leggerle nei pensieri, o meglio, di capirla a tal punto da precederla, sorprendendola di volta in volta e avvolgendola di calda rassicurazione. Adriana è il nuovo, il proibito, è l’amore non previsto dalla società e che, a dire il vero, neppure Elena aveva mai considerato né immaginato.

Inizia tutto con un sms audace di Adriana ‘’Stanotte ti ho leccata tutta.. che bello.. che pazza’’; Adriana appena diciottenne è l’alter-ego di Elena, sicura di sé, sfacciata, sempre pronta a dare ordini e a prendersi con la forza ciò che vuole. Tra le due, così diverse, non stenta a nascere una forte attrazione fisica, consumata voracemente e a più riprese.

L’amore è imperfetto sa presentarci perfettamente, nero su bianco e senza troppi fronzoli, l’amore tra due donne ed, in particolare, la loro bisessualità: entrambe, infatti, hanno rapporti ed intessono relazioni anche con uomini. La naturalezza con cui viene presentata al lettore è spiazzante, offrendo riflessioni di ampio respiro su come la natura umana possa essere multi sfaccettata e multidimensionale, soprattutto a livello sessuale ed affettivo, rispetto ai canoni etero normati e conosciuti. La stessa Elena ci dice, riferendosi all’amica Roberta, ‘’Le avrei detto dell’incontro magico con due persone molto interessanti.

Di una giovane ragazza che scombussola le idee da paraocchi che avevo sui grandi adolescenti, e della stessa giovane che mi porta ad annusare un mondo, che vedevo assolutamente lontano dal mio. Mai avvertita prima d’ora la minima attrazione per un’altra donna. Con Adriana non è solo successo, ma continua a succedere. “Mi basta solo pensarla. E lo faccio sempre più intensamente. Mi facevo l’idea, tra l’altro, che un’esperienza di questo tipo potesse in qualche modo spiazzarmi o togliermi il fiato. Ciò che invece mi ha turbato è stata l’averla vissuta nel modo più naturale possibile, unitamente alla consapevolezza di quanto mi piaccia il cazzo ’’.

La frequentazione di Ettore ed Adriana in contemporanea dà ad Elena la possibilità di scoprirsi, o meglio di riscoprirsi viva, di sentirsi desiderabile e desiderata, accettata nella sua fragilità, con il suo carico di errori e con le sue unghie mangiucchiate, ed un viaggio in Giordania dà il via ad una cascata emozionale, che sfocerà poi nel ricontattare, dopo ben 10 anni, il padre di Claudia, Marco. Una relazione durata pochissimo, quella con Marco, che offriva sempre un amore bianco, candido, tenero e mai cattivo, animale, primordiale. Marco era stato l’uomo perfetto, avevano viaggiato e fotografato assieme in Medio Oriente, sperimentando differenti culture ed assaporando il gusto dell’avventura, fino a quando qualcosa era emerso a galla, qualcosa che stonava da sempre, l’atteggiamento particolarmente affettuoso di Marco nei confronti di un arabo. Così Elena era rimasta raggelata dinanzi all’evidenza di quell’amore, che a lei non era concesso avere, era rimasta all’angolo, e l’ultima carta da giocarsi per poter avere ancora importanza per Marco era stata Claudia. Una gravidanza bellissima, un parto complicato, e poi basta, padre e figlia se ne vanno via per sempre, assieme all’arabo, e tutto rimane in sospeso.

Elena rimane in sospeso, le sue emozioni rimangono così, apatiche, grigie, in attesa di risposte. Elena è pronta finalmente ha riconquistarsi lo spazio mai avuto con Claudia, ad instaurare un rapporto con lei e a ‘’ perdonare’’ Marco in una remota parte dentro di sé.

L’amore è imperfetto rimane per i lettori una grande lezione di vita, che ci ricorda come le sicurezze siano solo per gli insicuri, e come ‘’l’amore da favola non esiste.. sono le imperfezioni a creare le alchimie che spesso si confondono con l’amore perfetto, regalando l’illusione dell’agognata perfezione’’. Al termine del romanzo, fresco, scorrevole, complesso nella sua semplicità, troviamo che ogni cosa torni al suo posto perché ’’lo scorrere del tempo aiuta a rivedere meglio ogni cosa, tutto prende forma magicamente, e anche i più difficili grovigli si sciolgono. Il tempo arriva da solo, arriva a soccorrere. ‘’

Amore eterosessuale, amore omosessuale declinato sia al maschile che al femminile, ma anche bisessualità, poligamia, coming-out e maternità sono le tematiche che sapientemente Francesca Muci ci regala nel suo romanzo, senza mai scadere nel banale, con una delicatezza ed una fluidità fuori dal comune. Consigliatissime queste 180 pagine, capaci di presentarci realtà più o meno conosciute, senza mai appesantire, offrendo una visione non giudicante ed accogliente.

(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di The Danish Girl

Attenzione: il film è ambientato nel 1926, quando l’essere una persona transgender era ancora considerato un disturbo della personalità.

The Danish Girl è un film del 2015 diretto da Tom Hooper, tratto dall’omonimo romanzo di David Ebershoff e liberamente ispirato alla vita delle pittrici danesi Lili Elbe e Gerda Wegener.

Copenaghen, 1926, Einar Wegener è un pittore paesaggista di successo, e sua moglie Gerda una ritrattista. Durante la realizzazione di un ritratto per la sua amica e ballerina Ulla, Gerda chiede a Einar di fare da modello e di indossare un paio di calze da donna. Qualcosa scatta in lui, qualcosa che all’inizio non comprende bene, fino a quando, per gioco, decide di diventare Lili. 

Solo un gioco? Forse all’inizio; poi però qualcosa in Einar cambia, inizia a non sentirsi più sé stesso. Quella palude che spesso rappresenta nei suoi quadri e lui dice di avere dentro, è pronta a uscire.

Non comprende ciò che gli sta accadendo, crede che in lui esistano due personalità. Lili esce allo scoperto e con Gerda vanno alla festa degli artisti organizzata da Ulla. All’inizio Lili è imbarazzata, confusa, fino a quando incontra Henrik, che sa chi è Lili e la seduce. Ora la personalità di Lili prevale; Gerda capisce che qualcosa sta cambiando, ma non lascia solo suo marito e anzi, inizia a dipingere ritratti di lei, riscuotendo un grande successo, tale che decidono di trasferirsi a Parigi. Einar cerca di farsi aiutare dai medici, che vogliono “curarlo” e farlo tornare “normale”. Ma lui non vuole essere “normale”. Tenta un percorso psicologico che ha come unico risultato quello di fargli avere una diagnosi  di schizofrenia. Einar vuole essere Lili. Sente di voler iniziare il percorso che lo porterà a essere ciò che sente dentro: una donna. Si affida al dottor Warnekros, pioniere dell’intervento chirurgico di riassegnazione sessuale. Dopo il primo intervento Gerda e Lili vivono insieme. Lili cerca di ricominciare e trova lavoro in una profumeria sognando un uomo con cui passare il resto della vita. Gerda fa fatica ad accettare il cambiamento, e rifiuta il corteggiamento di un altro uomo.

Gerda dovrà dimostrare alla bigotta società dell’epoca che amare qualcun*, spesso, vuol dire lasciarl* liber*.

CONSIDERAZIONI

Un film che entra dentro lo spettatore con tutta la sua delicatezza e la sua drammaticità.

Una prova eccellente da parte del regista che realizza un film commovente, personale e toccante, ma anche poetico e suggestivo.

Compito assolutamente non facile quando si vuole raccontare una storia di vita intensa segnata da scelte difficili e sentimenti contrastanti con eleganza e dolcezza.

La dolcezza è quella di Lili quando timidamente inizia a immaginare il suo corpo femminile mettendo in risalto la sua nudità davanti allo specchio, nascondendo il pene e sfiorando il petto. La dolcezza è quella di Gerda che non abbandona Lili in questo percorso ma che sta sempre al suo fianco e soffre per lei, con lei.

Il personaggio di Lili è reso magistralmente da Eddie Redmayne, in ogni piccolo movimento, espressione del viso, del corpo, attraverso il sorriso.

Come non citare la presenza e il gioco superbo degli specchi che fanno sognare Lili quando tocca gli abiti femminili e li posa su di sé immaginandoli suoi come ha sempre sperato e saputo: tutto ciò attrae e attira lo spettatore in una sorta di vortice di emozioni.

Coloro che si sono occupati del make up e dei costumi hanno avuto un ruolo fondamentale nella produzione e nella resa finale di questa figura così fragile e determinata allo stesso tempo che si affida al puro sentimento e all’istinto mettendo da parte l’apparenza e inseguendo le sensazioni, i movimenti e i richiami della natura, la passione.

Questo conflitto tra interno ed esterno porta Lili a vivere un sentimento di depressione e disagio che la spinge verso una ricerca quasi violenta di sé stessa e una tremenda confusione emotiva. Una volta compresa la sua natura e il suo posto nel mondo, il suo coraggio e la sua intelligenza la sostengono nella scelta drammatica e rischiosa di cambiare per sempre il suo corpo attraverso la chirurgia.

Gerda emoziona nei panni di una donna forte e all’avanguardia, padrona del suo dolore e del suo amore per Einar e per Lili come due volti di una stessa passione.

The Danish Girl non è solo una storia d’amore e di amicizia intorno a un argomento legato alla sessualità ma è anche una riflessione sull’amore per sé stessi, molto più difficile da provare rispetto a quel sentimento che ci lega a un’altra persona, più o meno intensamente. Dell’altra persona si accettano infatti pregi e difetti mentre spesso è impossibile fare i conti con le proprie fragilità, paure e idee. Una piccola provocazione però va fatta: perché non dare il ruolo di Einar/Lili ad un* interprete transgender?

(recensione di Luca Goldone e Roberto Malara, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Io sono io

Io sono io, Cinzia Messina, Ed. Il Ponte Vecchio, pagg. 108

‘’Io sono io’’ è la storia di Greta, o meglio di Marco che non vuole più essere Marco.

Si presenta come un collage di pensieri, flussi di coscienza, chiarimenti, parti romanzate e illustrazioni, che nella sua completezza e varietà ci permette di entrare nella famiglia di Greta nella piccola Ravenna, in un vissuto intriso di dolore ed autenticità, attraverso le voci di tutti i suoi componenti; conosciamo, quindi, da vicino Cinzia e Luigi, i genitori, e Paolo, il gemello. Attraverso le molteplici testimonianze che si susseguono, senza mai scadere nel pietismo o nell’autocommiserazione, arriviamo a comprendere, pagina dopo pagina, cosa significhi essere una persona transgender, e in particolare cosa significhi esserlo oggi in Italia, da adolescente.

Greta ci insegna, tramite i suoi minuziosi racconti, che la persona transgender ha il diritto e la capacità di autodeterminarsi, ossia di essere o diventare ciò che si sente, rimanendo comunque la stessa persona, a livello umano e affettivo, che si conosce e a cui si vuole bene.

Questa adolescente ci presenta due fasi importanti della propria vita, il pre e il post coming-out, che diviene così un urlo liberatorio e un atto di conquista del proprio sé più reale, all’interno del proprio nucleo familiare e nella società. Conosciamo da vicino il dolore, mescolato ad apatia, depressione e lacrime, provocato da una costante emarginazione del “diverso’’, che conduce Greta alla non accettazione del proprio corpo, al farsi la doccia al buio pur di non vedere la propria pelle e le forme in cui non si riconosce, fino al digiuno prolungato e al dimagrimento, al fine di umiliare l’involucro in cui è rinchiusa.

Conosciamo, poi, la lenta, ma costante, risalita; le confidenze prima al papà Luigi, dotato di una sensibilità fuori dal comune, e successivamente alla mamma Cinzia, donna forte e caparbia, fanno sì che Greta possa iniziare a esprimere la sua vera essenza, con le paillettes e i trucchi, con la scelta di un nome femminile che la rappresenti, diffondendo attorno alla propria persona un vento di cambiamento. Ne vengono ben presto toccati tutti gli ambiti in cui Greta si muove, in primis l’ambiente scolastico, dove si accetta di interpellarla con il suo nuovo nome e i pronomi femminili.

Nel frattempo, Cinzia mette in atto, a sostegno del benessere e dell’amore incondizionato per la figlia, una “rivoluzione umana’’ su più fronti, basata sulla creazione di gruppi specifici di ascolto e supporto per genitori di persone (e adolescenti) transgender, su una capillare attività di informazione riguardo all’identità di genere, spesso confusa con l’orientamento sessuale, fino ad arrivare ad essere accolta e ascoltata dal sindaco di Ravenna e a rilasciare interviste in tv riguardo alla storia di Greta.

Questo volumetto molto agile e veloce offre la possibilità di approcciarsi a una condizione umana, quella di persona  transgender, ancora poco conosciuta e spesso associata a un immaginario stereotipato e iper-sessualizzato, per la prima volta attraverso la voce di una bambina-adolescente, e non solo tramite le parole dei genitori; ne esce un “libro di famiglia’’, che ha fiducia nella voce dei bambini, che racconta senza idealizzazioni quanto sia difficile e doloroso l’incontro reale tra genitori e figli. Questo libro non racconta dell’amore che tutto accetta, ma dell’amore che tutto vuole comprendere. E la comprensione e l’informazione diventano chiavi di volta fondamentali, per arrivare ad accettare che l’identità di genere non è prettamente binaria, e che le convenzioni che ci vengono spacciate per “normali’’ e “naturali’’ sono in realtà delle sovrastrutture, che non permettono nessun altro modo di essere e di esprimersi, e che creano spesso substrati su cui germogliano discriminazioni, prevaricazioni e bullismo verso la persona considerata “diversa’’.

Consigliamo tantissimo questa lettura per i toni pacati e pieni di fiducia che popolano ogni singola pagina, perché si parla di transgenderismo e non solo; si parla anche di cosa significhi essere un genitore in grado di accogliere un figlio e di lasciarlo libero di volare il proprio volo, si riflette sul bisogno di essere amati, che non ha sesso né età, e della paura di essere se stessi, che lascia il passo al terrore, se si posa su spalle troppo giovani.

Alla fine di tutto, rimane l’immenso e preziosissimo insegnamento di Greta e del coraggio del suo percorso, che rappresenta un inno alla vita: quando la paura ci blocca è necessario e possibile cercare e trovare un modo per andare oltre, anche a costo di inventarselo.. ogni volta che ci riuscirai, la volta dopo sarà più facile. È vero: serve tutta la forza che spesso ci sembra di non possedere, ma non bisogna scordare mai di nutrire un’incrollabile fiducia nella vita; quando le si chiederà aiuto sinceramente con tutto il cuore, essa ci farà incontrare ciò di cui abbiamo bisogno. Starà a noi e solo a noi farci trovare pront* a cogliere l’occasione.

(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Weekend (2011)

È possibile innamorarsi in 2 giorni di un perfetto sconosciuto? È quello che scopriranno Glen (Chris New) e Russell (Tom Cullen). 

L’incipit è classico: un venerdì sera, un locale, 2 ragazzi, qualche drink, qualche canna di troppo, un gioco di sguardi e un risveglio a letto insieme. OK, grazie, ciao, ci sentiamo, ci scambiamo i numeri. La solita nottata senza futuro, giusto? E invece no, i due ragazzi iniziano a parlare, a raccontarsi, ad aprirsi l’uno con l’altro. Glen, che lavora “alla galleria in città” e registra su nastro le interviste del giorno dopo le notti di sesso, e Russell, un bagnino che fa fatica a dire al mondo di essere gay (lo sanno solo gli amici strettissimi), parlano, ridono, litigano, scherzano e si confrontano, in un crescendo di emozioni e sentimenti autentici. 

Glen decide di presentare Russell agli amici, una cosa che fa molto raramente; così Russell scopre (per fortuna, oppure no, decidete voi) che Glen ha avuto un grande amore travagliato, e che per la prima volta non ha fatto ascoltare il nastro alla sua migliore amica, perché “forse gli interessi” commenta lei.

Russell domenica va alla festa di compleanno della figlioccia, perché non portare Glen? Sarebbe troppo semplice. Infatti, Glen gli confessa che domenica partirà per gli Stati Uniti, e ci rimarrà per 2 anni per seguire un corso. Questa notizia pesa come un macigno su Russell. Può, conoscendolo  solo da 2 giorni, chiedergli di non partire? Glen può scegliere di restare per uno che conosce da 2 giorni?

E qui ci fermiamo, non vogliamo raccontarvi come andrà a finire. Guardate il film, e partecipate al Cineforum, dove potremo approfondire tutto quello che riguarda il film e le sue molteplici tematiche.

A nostro avviso il regista ha reso il film una sorta di spaccato di vita vissuta, senza filtri e senza artificiosità, con una connotazione quasi documentaristica.

Mette a nudo le personalità dei due protagonisti, scandagliando paure, dubbi, angosce, tratti di perspicacia, ma di spavalderia. 

Glen appare spavaldo, sicuro di sé ed orgoglioso della sua omosessualità: potrebbe apparire così un po’ superficiale, ma rimanendo pur sempre genuino con quella sua maschera di difesa; anche per lui, infatti, come per Russell, la percezione dell’essere gay scatena quella crisi d’identità, che si traduce nella consapevolezza che la società non ancora accetta l’essere, i sentimenti e comportamenti legati all’omosessualità.

Russell, invece, vive la sua omosessualità in tutt’altro modo: si tratta per lui di un percorso intimo e riservato, che ha bisogno di essere ancora scoperto, comunicato, fatto volare via con maggiore leggerezza, in quanto il ragazzo è ancora convinto di non poter manifestare in pubblico serenamente la sua “normale diversità”. 

I nostri protagonisti sono due uomini che affrontano la vita in modi diversi, ma entrambi cercano la stessa cosa: il loro posto nel mondo.

In tutto questo lo spettatore assiste ad una serie di dialoghi, sguardi, gesti, silenzi, confidenze reciproche e viene travolto da una carica emotiva, che difficilmente non riesce a toccare il cuore.

I due attori sono bravissimi e funzionano perfettamente insieme. È anche per merito della loro ottima intesa che le scene di sesso danno un’impressione di grande naturalezza. Già, perché il sesso nel film c’è, ma non è gratuito, mai, e non solo perché è seguito dalle coccole e da chiacchierate abbracciati ai cuscini, ma soprattutto perché in fondo è un’espressione di profonda ed amorevole tenerezza, che si legge nei sorrisi e negli occhi dei due ragazzi.

Un film che ci ha fatto riflettere, conoscere un tipo diverso di narrazione e sicuramente commuovere.

Curiosità

  • A cinque anni dalla sua uscita ufficiale, la Teodora Film annuncia la distribuzione del film (in lingua originale sottotitolato) nei cinema italiani per il 10 marzo 2016. Alla vigilia della sua uscita italiana, la Teodora Film rivela che il film esce in sole 10 sale – tutte al nord, tranne una a Roma – a causa del giudizio negativo assegnato dalla Commissione nazionale per la valutazione dei film della Conferenza Episcopale Italiana (che preclude molte sale del circuito d’essai, spesso gestite dalle parrocchie) che ha giudicato il film come “Sconsigliato/Non utilizzabile/Scabroso”, riconducendolo a due sole tematiche: droga e omosessualità. La critica e la stampa hanno valutato negativamente il giudizio e l’azione svolta dalla CEI, sostenendo che essa delinea una vera e propria «censura che sfugge al controllo dello Stato».
  • Il film è stato girato a Nottingham (Gran Bretagna)  in soli 17 giorni e con un budget molto ridotto.
  • Il regista, Andrew Haigh, ha esordito come sceneggiatore e dietro la macchina da presa nel 2003 con il cortometraggio Oil. Successivamente ha diretto altri tre cortometraggi due nel 2005, Cahuenga Blvd e Markings (quest’ultimo con gli attori Katelin Chesna e Brad William Henke), e uno nel 2009, Five Miles Out con Thomas Malone e Dakota Blue Richards. Andrew Haigh è apertamente gay e durante la sua carriera si è occupato principalmente di tematiche legate all’omosessualità. Nel 2009 ha diretto Greek Pete, il suo primo lungometraggio, presentato al London Lesbian & Gay Film Festival. Il film, ambientato a Londra e contenente scene di sesso esplicito, è incentrato sul tema della prostituzione omosessuale maschile

(recensione di Luca Goldone e Roberto Malara, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Latte Arcobaleno

Latte Arcobaleno, Paul Mendez, Ed. Blu Atlantide di Febb 2021, pagg. 410

Con Latte Arcobaleno Paul Mendez ci regala un romanzo, che è al tempo stesso un originalissimo esordio letterario e un capolavoro d’espressione, un’opera di ampio respiro, che lascia sconvolti e affascinati, con una scrittura cruda, feroce, diretta e senza censure, e una storia carnale, primitiva, essenziale e realistica.

Siamo negli anni Sessanta del secolo scorso quando una giovane coppia, Norman e Claudette, decidono di trasferirsi in Inghilterra, inseguendo il sogno di una vita migliore. Lasciano così la Giamaica alla volta delle Midlands, approdando precisamente in quella regione definita la Black Country (‘’È stata Claudette ad insistere per venire in Inghilterra. Voleva andarsene da questa isola bastarda, così diceva quando ho ricevuto una lettera dal mio vecchio compagno di scuola, che mi scriveva quanto era bella la vita nella Black Country… c’è così tanto vero lavoro da uomini, che posso provare a fare mille cose, prima di sceglierne una…’’). Purtroppo, però, ben presto tutte le aspettative della coppia si sgretolano sotto i duri colpi del razzismo più violento, della miseria, della desolazione umana e dell’emarginazione nei sobborghi di periferia (‘’Un sacco di queste case sembravano più adatte ai polli che alle famiglie. Non c’è niente in Giamaica se si può paragonare a Bilston. Non c’è un solo muro di Bilstol che non è sporco e annerito di fuliggine. I bambini piccoli correvano nudi per strada e facevano la cacca, dove si accovacciavano… e quando mi vedevano urlavano Negro! Negro! Si fermavano a fissarmi con la bocca aperta per lo stupore, come se fosse atterrato un bombardiere. Avevamo lasciato il giardino dell’Eden per la Terra di Latte e Miele, e avevamo trovato Sodoma e Gomorra’’). A causa dei vapori, del catrame, della naftalina e del coke, Norman si ammala, prima perdendo la vista e successivamente iniziando a soffrire di atroci mal di testa. È costretto così a rimanere a casa, badando ai suoi figli, Robert e Glorie, coltivando il suo giardino e le sue amate rose, in contrapposizione ‘’all’odio, all’incazzosità e alla cattiveria mentale rivolta a loro, che provengono dalla Indie Occidentali’’. Nel frattempo, Claudette sprofonda nella depressione e nella disperazione (‘’Sono stanca. Non posso occuparmi di te, badare ai bambini e fare due lavori, quando ogni minuto ho paura che qualcuno busserà alla porta e ci prenderà a manganellate in testa. Non posso reggere quest’ansia nel cervello… Io non voglio adattarmi meglio alla sofferenza. Io voglio essere felice’’).

Mendez decide di lasciare ignote le sorti della coppia di immigrati giamaicani, facendoci atterrare nel capitolo successivo in un passato recente, negli anni Duemila, dove conosciamo Jesse. Nero, cresciuto in una famiglia multirazziale di Testimoni di Geova, composta da una madre nera, violenta e disturbata mentalmente, dal padre adottivo bianco, Graham, e dalle due sorelle.  Lo conosciamo appena diciannovenne, battezzato da tre anni, in procinto di diventare un servitore del ministero, ‘’uno che faceva discorsi importanti dal pulpito col microfono’’. Ma c’è qualcosa che turba Jesse, che gli fa venire prurito su tutto il corpo quando è in compagnia di una ragazza; ‘’sa che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato e spera che non venga fuori la verità’’. Di lì a poco, Jesse conosce durante le sue peregrinazioni per le case di quartiere, con Svegliatevi! e Torre di Guardia per le mani, la prima coppia di ragazzi gay, che vivono insieme come una coppia sposata, e dopo aver fatto delle avances al suo compagno di congregazione Fraser, si ritrova emarginato nelle mura domestiche e disassociato dalla comunità di Geova. Decide di scappare di casa, senza lasciare traccia, di trasferirsi a Londra, dove avrà inizio la sua discesa agli inferi, fatta di droghe, di prostituzione, di clienti avvicinati su Gaydar o di persona, di Gay Street e locali notturni come il Coleherne, sempre alla ricerca di ‘’un paparino bianco, sulla cinquantina, con una giacca elegante che dava l’idea di avere un bel gruzzolo, che profumava di successo. Lui era soltanto un nero scapestrato che poteva soddisfarlo’’. Ma c’è ben presto qualcosa che inizia a mancare, c’è la necessità di un’interconnessione spirituale con qualcuno che sappia arrivare nel profondo, e quel qualcuno sarà Owen, il coinquilino nella Bruce Grove londinese. L’intellettuale bianco, il poeta che ha fatto coming out in età avanzata, dopo un amore mai consumato ai tempi dell’università col professore d’inglese, morto di AIDS, e dopo il lutto per la morte del padre. Owen, conosciuto come l’eterosessuale e il padre modello, che ha lasciato tutto, la moglie Anya e le due figlie, decidendo di non rinnegare più la sua vera natura (‘’non è che la sessualità cambia nel bel mezzo della tua vita… spetta a noi decidere quanto vogliamo essere sinceri con noi stessi’’). Si incontrano Jesse e Owen, si riconoscono tra mille, ascoltano musica, parlano di letteratura, loro che sono ai margini della società, soli il giorno di Natale, senza il calore di una famiglia, senza più radici (‘’Jesse poteva stare in eterno ad ascoltare il cervello di Owen che dispensava quei pensieri come caramelle. Voleva essere ipnotizzato da qualcuno con un cervello molto raffinato ed un cazzo molto grosso’’). Ma il destino beffardo è sempre in agguato, e Jesse non riuscirà a viversi la passione e la relazione con Owen, a causa della situazione incerta che entrambi vivono, in attesa dell’esito del test HIV, e successivamente per l’incidente di Owen, che gli arrecherà danni alla colonna vertebrale, riducendolo nuovamente a proprietà della moglie, disposta a riportarlo a casa per salvare apparenze e famiglia. 

A questo punto Mendez si conduce per mano verso la fine di questa odissea moderna, quattordici anni più avanti, esattamente nel 2016 con Jesse ormai adulto, che convive con Owen. I due si rincontrano al Light Cafè, dove lavora Jesse, si abbracciano, piangono, si scambiano i numeri e vanno a letto insieme, per poi trasferirsi in breve tempo in una casa vittoriana ristrutturata e decidere di sposarsi. Jesse ha un buon lavoro, e scribacchia a tempo perso, con l’idea di pubblicare prima o poi qualcosa di suo, mentre Owen scrive ancora in versi, ma non più sulle lotte sociali, bensì sul sesso e sull’amore, ‘’perché vuole diventare la voce queer della poesia’’. Sono ormai cresciuti e maturati, ben inseriti nella società, con amici che dispensano consigli, affetto e pic-nic, ed è proprio grazie ad un amico che Jesse alla fine ha modo di ritrovare le sue origini perdute e la figura di un padre, desiderato per tutta la vita e saputo morto nella primissima infanzia. Grazie alla somiglianza con un pittore incrociato nei mercatini di periferia negli anni Novanta, che si ritraeva nudo con le rose Otello tra le mani, si risale al nome di Robert Alonso, figlio di quella coppia giamaicana approdata con utopie di successo e benessere ben 3 generazioni prima, caduto in disgrazia a causa dell’AIDS, abbandonato dalla moglie, che aveva poi deciso di voltare pagina sposando il bianco e credente Graham. Per tanti anni la donna aveva rinnegato il suo passato e con esso anche il primogenito Jesse, dando sempre una versione sulla paternità menzognera e distorta.

Latte Arcobaleno ci presenta un bestiario umano, fatto di malvagità, di prostituzione e perversione, di razzismo graffiante, di non accettazione del sé più profondo, dal colore della pelle (neritudine) fino al proprio orientamento sessuale; ci presenta Jesse, un personaggio che è un fuggitivo, che vive nell’ansia e nel degrado; ci fa riflettere sul credo, che giudica, che non accoglie e che condanna, e sulla famiglia, che spesso chiude le porte dinanzi alla diversità, riducendo i propri figli a vittime, ad aborti sociali. Latte Arcobaleno ci presenta tanto sesso, senza riserve e senza limiti, collegato anche alla morte e all’AIDS, con un linguaggio potente e volutamente provocatorio, a ricordarci la natura primitiva e “schifosamente selvaggia” degli esseri umani. E proprio quando non c’è più via d’uscita, proprio quando la sofferenza ha raggiunto l’apice, ecco che arriva la redenzione, laddove passato e presente si incontrano per dare risposte a lungo celate, per dare amore laddove la propria madre offriva bugie, cinghiate e tazze di latte maleodorante con cereali colorati all’interno (da cui il titolo del libro), ‘’perché la verità in un modo o nell’altro trova sempre il modo di raggiungerti’’. 

Paul Mendez ha regalato ai lettori di tutto il mondo il suo primo romanzo coraggioso e commovente, con fortissime note autobiografiche; Mendez, infatti, è nato nel Black Country nel 1982, e a 17 anni ha deciso di lasciarsi alle spalle la comunità dei Testimoni di Geova e di cercare là fuori il suo vero sé.

Se avete lo stomaco forte, leggete Latte Arcobaleno, leggete le sue pagine piene di violenza fisica, lacrime, sesso e sperma; leggete di come il candore latteo, che rimanda all’idea d’ingenuità senza peccato e di falso perbenismo, possa mescolarsi ad un arcobaleno di esperienze, verità e maturità, in una pluridimensionalità di relazioni e sentimenti. Ne verrete ricompensati con un inno glorioso alla rivendicazione della diversità e della libertà di espressione, che va oltre ogni genere, difficile da dimenticare, che abbraccia gli emarginati e gli indifesi, e li segue attraverso il loro percorso catartico fino al momento della resurrezione nella terra degli uomini, e non di un Dio.

(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Happiest Season

Oggi vi parlo di Happiest Season, per noi tradotto in Non ti presento i miei, anche se ammetto di essere leggermente in ritardo – mi salverò dicendo che la nostalgia per la stagione natalizia ha già iniziato a farsi sentire.

Il film, diretto da Clea DuVall, parla infatti della storia d’amore tra due donne, Abby (Kristen Stewart) e Harper (Mackenzie Davis) e della loro avventura natalizia – e sì, con avventura natalizia intendo proprio passare le festività a casa della famiglia, non proprio facile da gestire, di Harper.

Come la “traduzione” in italiano non aiuta a nascondere (chi ha autorizzato questo spoiler?), la vacanza della coppia non sarà proprio una vacanza di coppia, ma piuttosto tra la figlia e la sua coinquilina (mai sentita questa storia?).  Harper, infatti,  non ha ancora fatto coming out con la propria famiglia a causa della paura di poter perdere l’affetto genitoriale, da sempre basato sui traguardi raggiunti e sul valore che ciascuna figlia poteva aggiungere alla famiglia, così da farla sembrare perfetta (almeno all’apparenza). E, “ovviamente”, l’omosessualità non era nella lista delle cose da spuntare, per raggiungere tale scopo.

Il film, nonostante le tematiche poco piacevoli, riesce a non risultare pesante e al contempo a generare una riflessione su una situazione che molto spesso una coppia omosessuale si ritrova ad affrontare.

Quando si è finalmente riusciti ad ammettere al mondo chi si è veramente, ritrovarsi in una circostanza in cui è necessario nascondersi – fare un passo indietro nel proprio percorso personale, direi – non è facile e non fa stare bene.

Dall’altro lato, non è giusto forzare qualcuno al coming out, in quanto è un percorso personale e diverso per ognuno di noi. 

Avrei solo due critiche da rivolgere alla regista. 

La prima riguarda il repentino superamento dell’omofobia che ha da sempre circondato Harper. Se fosse così facile da sconfiggere, probabilmente ce ne saremmo già accorti da tempo.

L’altra invece è relativa alle red flags* giganti spuntate sulla testa di Harper, in seguito ai suoi discutibili comportamenti tenuti durante tutto il soggiorno.

Essendo questo un film, il lieto fine sembra quasi obbligatorio, per cui concedo il cosiddetto beneficio del lieto fine, solo ed esclusivamente  ai fini dell’esistenza di questa realtà poco reale, in quanto è importante non ignorare comportamenti del partner – anche spesso inaspettati o “nuovi” – che ci causano sofferenza.

Per quanto il coming out sia una scelta personale, trovo il comportamento di Harper estremamente egoista nei confronti della fidanzata (e, si scoprirà nel corso del film, anche nei confronti dell’ex fidanzata, ai tempi del loro rapporto), che ha già mostrato estrema pazienza nell’accomodare le richieste di eterosessualità e finzione che le sono state avanzate. Non entrerò nei particolari, perchè sennò dovrei anticiparvi tutto il film.

Curiosità

  • Non è il primo film diretto da DuVall che vede come protagonista una coppia omosessuale. Clea è infatti anche la regista di The Intervention, film in cui lei stessa recita la parte di una donna lesbica  libera finalmente di “interpretare se stessa”, come ha  affermato  in alcune interviste relative al lancio  della pellicola.
  • La regista di Non ti presento i miei, non è l’unico membro della comunità LGBTQ+ del film; nel cast, oltre a Kristen Stewart, troviamo anche Dan Levy (Schitt’s Creek, tra i suoi più recenti lavori), nel ruolo di John, miglior amico di Abby, e Aubrey Planza (come Riley, ex fidanzata di Harper).

* Red Flag: un segnale più o meno tangibile che ci fa venire (o dovrebbe farci venire) il dubbio su un determinato aspetto di una persona. Le red flags sono, cioè, i “campanelli di allarme” a cui spesso non facciamo caso (o a cui scegliamo di non fare caso) perché pensiamo siano di poca rilevanza, passeggeri.

(recensione e grafica di Martina Bonanno)

Recensione di Camera Single

Camera Single, Chiara Sfregola, Ed. Leggereditore, pagg. 352

‘Non ti amo più’ arriva improvviso, feroce, deflagrante nella vita di Clorinda Baronciani, detta Linda, fatta fino a quel momento di biscotti bio, progetti di coppia e torte fatte in casa.

Tutto crolla, Margherita se ne va e non resta altro da fare che ricominciare da capo. Come? Con la fisioterapia del cuore. Non senza rabbia, pianti, Kleenex per terra e giornate in vestaglia a piedi nudi sul parquet, Linda intraprende un percorso fuori e dentro di sé, di conoscenza più profonda e di rinascita, che la porta a lasciare il Pigneto romano e a trasferirsi nella Roma più bohémienne del centro, assieme alla coinquilina storica, con una ”camera single” a disposizione (da cui il titolo del libro), ”dove tutto è troppo grande, persino per qualunque set di biancheria proveniente da casa della madre”.

Chiara Sfregola, autrice del romanzo, ci porta a seguire da vicino Linda nell’arco di 12 mesi, con una scrittura fluida, piacevole e giovanile, con occhio profondamente analitico, mai greve e giudicante, quanto piuttosto ironico e leggero. Ne emerge un quadro vivace di personagge, che si snodano attraverso le molteplici avventure e frequentazioni della protagonista, e che diventano lo strumento per presentare realtà parallele a quella eterosessuale ed eteronormata.

Conosciamo, pagina dopo pagina, lesbiche eteree o medusiane nel modo di sedurre, semplici e immediate oppure ricercate e snob, il gruppo delle amiche di Linda, le Lelle Ignoranti (con evidente rimando ad un celebre film di Özpetek), sempre presenti, chiassose, burine e di buon cuore, donne bisessuali prima e poliamorose poi come Indira. Conosciamo Cecile, che dichiarerà di sentirsi uomo, ma di non voler intraprendere nessun percorso di transizione (”Guardo Cecil, per me ancora la mia Cecile, che ho per tanto tempo scritto male e voluto bene. Adesso mi rivolgo a lui stando attenta come se portassi un uovo in tasca. Il discorso fluisce leggermente più lento, quei centesimi di secondo necessari a trovare il pronome giusto, a declinare correttamente gli aggettivi” […] ”Non so se sono profondamente radicale o terribilmente superficiale, ma se c’è una cosa che ho capito riguardo all’identità, non solo di genere, è che va bene tutto, basta che funzioni”).

Abbiamo anche coppie, come quella di Dina e Donna all’interno delle Lelle Ignoranti, che stanno tentando di avere un bambino, un po’ per piacere un po’ per dovere, essendo la coppia più duratura del gruppo in età da figli, e a tal proposito Chiara Sfregola, tramite la voce di Linda, ci regala spunti di riflessione intrisi di femminismo contemporaneo, con la voglia costante di scherzare, ma non troppo, su faccende che ormai ci riguardano da vicino (”Adesso vorrei fare coming out di nuovo e spiegare che effettivamente potrei non diventare mamma, ma perché non mi va, non perché non posso” […] ”Questa è la fine dell’adolescenza! Mi vedo piombata in un universo in cui la gente è felice perché il figlio ha fatto la cacca e te ne parla a tavola. Un mondo di merda, letteralmente” […] ” Non le sento più. Queste hanno già cominciato con le perle di saggezza da neo-madri. Sanno tutto loro, lo Spirito Santo non solo le ha messe incinta ma ha anche aperto le porte della percezione, due al prezzo di una”).

Al termine del romanzo, dopo un anno di ”recupero” nella camera single, Linda torna nella periferia da dove era partita, nella Roma Est con la Prenestina e la Tiburtina, forte a sufficienza per fare il grande passo con se stessa, andare a vivere per la primissima volta in una casa tutta per sé. È finito il tempo del sentirsi ”funambola” e solo di passaggio in un circo, ”perché il tempo è galantuomo sì, ma è soprattutto fisioterapista: bastano pochi mesi per iniziare a vedere le cose da un altro punto di vista”. Ed ora per Linda è tempo di consapevolezza e indipendenza.

Camera Single nasce nel 2014 come rubrica settimanale sul sito Lezpop.it, un piccolo cult LGBTQIA+ diventato successivamente romanzo, mantenendo il taglio fortemente episodico che caratterizzava i post scritti sul web. Si propone come un Bignami della cultura LGBTQIA+, che ben si adatta a varie tipologie di lettore, più o meno ferrate sull’argomento. Simpaticissima la trovata della scrittrice di proporre al termine del romanzo un Glossario, con una spiegazione veloce e precisa dei termini più usati dalla comunità (compreso il concetto di ”gay-radar”!). 

Consigliatissimo questo romanzo, per le risate e per l’ironia, e per ciò che lascia in eredità, tanto spessore spiegato con parole semplici e presentato in modo molto fruibile.

Ultima curiosità: in questo romanzo si pongono le basi per una riflessione femminista sull’argomento dell’unione civile tra donne (e della maternità), che verrà ripresa ed affrontata in modo più elaborato ed articolato in ”Signorina, memorie di una ragazza sposata”, sempre della stessa autrice, a partire dalla sua esperienza di donna, lesbica, femminista e moglie.

(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)